Storia moderna
A conferma della diffusione delle ghiande in Spagna, Don Chisciotte, che è ambientato agli inizi del 1600, si fa invitare a pranzo da gentilissimi pastori e mangia della capra bollita, quindi: “si mise in tavola una grande quantità di ghiande abbrustolite, e una mezza forma di cacio più duro di un pezzo di smalto.” È evidente lo scherno nei confronti di questo cibo, ma ciò nonostante Don Chisciotte se ne serve volentieri.
A partire dal Rinascimento, in Italia si fanno più comuni i manuali di cucina, i ricettari. Sono richiesti da quelle nuove classi mercantili che desiderano vivere meglio ed avvicinarsi ai fasti, anche culinari, delle Corti Reali. Sono destinati a dei cuochi che non si sono formati nelle cucine delle Regge, ma che vanno imparando il loro mestiere, più modestamente, nelle cucine borghesi, nei palazzi dei nuovi ricchi. In questo contesto le ghiande sono certamente malviste; la mensa del padron di casa non è certo quella del suo servo. Eppure in qualche ricetta riescono ad infilarsi, segno che era ingrediente comune e diffuso.
Ecco quindi che il Messisbugo a metà 1500 offre una ricetta di strudel nella quale si possono mettere vari tipi di frutta, ma anche le ghiande, bollite nel brodo di carne o nel burro se si tratta di giorni di magro. Poco dopo, il grande Scappi pubblica una ricetta di una torta di ghiande e formaggio, spingendosi a consigliare che le ghiande di cerro sono le migliori per questa preparazione.
Il tempo passa e negli ultimi secoli le ghiande, o il loro pane, sono sempre strettissimamente legate all’idea di miseria e di guerra. L’associazione fra ghiande e sofferenza diviene rigidissima e quindi le ghiande perdono ogni possibilità di diventare un cibo “normale”. Vengono relegate nell’angolo delle brutte cose da dimenticare; ricevono uno stigma sociale infamante.
Gli esempi son numerosissimi.
Il gesuita lombardo Francesco Cetti, mandato ad insegnare matematica a Sassari, scriveva nel 1774, parlando del pane sardo, fatto anche di farina di ghiande: “un pane che non sembra pan da uomo e pare fatto piuttosto per uccidere che per alimentare”. Pochi anni prima, nel 1762, Voltaire si augurava l’inizio del secolo del pane e della conoscenza e la fine dei secoli delle ghiande e della superstizione: terribile accostamento!
È toccante ciò che avviene a fine dell’anno 1800 a Rimini. L’annata agricola è stata modestissima e non vi è più cibo. Il governo illuminato della Repubblica Cisalpina ha soppiantato quello del Regno della Chiesa e, preoccupato per le condizioni alimentari del popolo, chiede all’illustre cittadino e professore Michele Rosa di suggerire nuovi alimenti. Su ordine del Governo viene pubblicato un opuscolo, la vigilia di quel che deve essere stato il ben triste Natale del 1800, in cui Rosa suggerisce di usare, fra altre cose, anche la farina di ghiande per fare il pane. Da quanto scrive si evince che le ghiande erano facilmente disponibili in quanto usate nell’allevamento dei maiali. Rosa propone più o meno gli stessi procedimenti di cui parleremo nei prossimi capitoli per quanto riguarda la scelta, la conservazione, la trasformazione in farina e la de-amarizzazione delle ghiande. Dopo molte prove consiglia infine come migliore, un pane fatto da un terzo di farina di grano, un terzo di farina di ghiande ed un terzo di farina di fave.
È palese la passione che Rosa mette nel suo studio e traspare la disperazione di chi sa che la propria ricerca salverà delle vite, come diremmo oggi. Ma in realtà non sappiamo se il suo opuscolo, rinforzato da un libro intero sullo stesso argomento pubblicato nel febbraio 1801, avrà avuto una qualche influenza sullo stato nutrizionale dei romagnoli. Possiamo invece fare una riflessione sul fatto che Rosa commette un errore che avrà vita lunga, almeno fino a dopo gli anni 1970. Dal momento che il cibo fondamentale (e spesso quasi il solo) era il pane di grano, si vuole piegare ogni altro farinaceo alla panificazione. Ciò è impossibile perché solo la farina di grano ha quelle caratteristiche che permettono una decisa lievitazione. Le altre farine lievitano molto meno o addirittura per niente. Michele Rosa si intestardisce a voler fare un pane lievitato di ghiande, andando incontro ad infiniti fallimenti ed amarezze, finché non trova quella miscela di grano, ghiande e fave che pare lievitare almeno un poco. Ma riconosce sconsolato, e la frase è terribile: “Qui si tratta del pane della fame manipolato dalla miseria”. Resta da chiedersi se quegli sfortunati contadini avessero quel terzo di grano e quel terzo di fave per fare la miscela indicata. Meglio avrebbe fatto il Rosa (ma questo lui non lo poteva sapere) se avesse seguito la strada dei legionari romani, dei contadini medievali e degli attuali contadini africani: le farine disponibili vengono, magari dopo una tostatura, mescolate con acqua più o meno abbondante per farne farinate o polente. Meno buone del pane, certamente, ma facili da fare e altrettanto nutritive.
Ma i contadini lo mangiavano o no il pane di ghiande, indipendentemente dai dotti consigli del Dott. Rosa?
Per rispondere a questa domanda possiamo affidarci a quanto detto da autori dei secoli precedenti. Nel 1513 ci dicono che con le ghiande si fa il pane in molte parti della Spagna; nel 1617 si afferma che nel sud della Francia le farine di ghiande e di orzo sono panificate insieme nei momenti di carestia; ed ancora nel 1784 e sempre in Spagna, si parla delle ghiande dolci di leccio che si mangiano come le castagne e ci si fa il pane. Quindi è molto probabile che, in forma silente e sotterranea, le ghiande entrassero nelle cucine e nelle bocche dei più poveri senza che questo si sapesse troppo o, addirittura, si volesse sapere.
Angelo Celli, medico urbinate deputato alla Camera, esclamava in aula il 2 febbraio 1903, lamentandosi della cattiva situazione rurale: “Sapete che cosa mangiano in questo inverno, molti nostri contadini? Le ghiande, come i maiali”. Anche in Spagna ed in Francia si continuano a consumare ghiande, si afferma nel 1872, ma solo in pochissimi casi, in annate sfavorevoli e ciò viene fatto da “popolazioni miserabili”.
Lunella de Seta nel 1942 pubblicava il suo volume “La Cucina al Tempo di Guerra“ in cui si dava consigli su come fare il caffè di ghiande ed un budino di farina di ghiande, segno comunque che quest’ultima era disponibile nell’Italia di quegli anni. Anche nella Spagna sconvolta dalla guerra civile, e soprattutto nel terribile inverno del 1941, ci si ciba di ghiande, ricordavano ancora poco tempo fa alcuni vecchi. Si facevano delle farinate e le tipiche tortillas spagnole. Veniva fatto il pane o si tostavano le ghiande per farne un sostituto del caffè; ma non solo a livello casalingo. Di questo uso si conosce infatti anche un esempio a livello industriale: vi era una impresa che comprava buone quantità di ghiande e le portava a Madrid dove venivano tostate e trasformate in polvere di succedaneo di caffè, come veniva fatto con la cicoria. Tale attività scomparve negli anni ’70, ma fino a quel momento la raccolta delle ghiande fornì del lavoro e degli introiti ad un buon numero di contadini per un paio di mesi all’anno.
Pur in questo quadro di associazione delle ghiande alla miseria, tipico degli ultimi secoli, vi sono degli esempi che vanno in senso contrario. In Sardegna, nell’Ogliastra e nella zona di Baunei, l’uso del pane di ghiande resta legato ad una forte tradizione e quindi il suo consumo diviene quasi più un rito che un atto alimentare. Osvaldo Baldacci racconta che nel 1938 il pane di ghiande non è più utilizzato se non durante le feste paesane sia da persone umili sia da quelle facoltose. Lello Fadda nel 1957 ne parla come di un vero e proprio cerimoniale di tipo religioso. Ma l’uso alimentare delle ghiande diventò comunque sempre più residuale e puntuale, al pari di altri frutti silvestri50. A questo riguardo è stato fatto recentemente un attento studio etnografico51 che ha dettagliato gli usi residui nel XX secolo delle ghiande dolci in Spagna: venivano raccolte per i maiali e conservate nelle soffitte in strati di una ventina di centimetri; erano rimescolate spesso fino a che fossero secche. Durante la raccolta era permesso ai lavoratori mangiarne a volontà, ma una volta raccolte e seccate non era più possibile avervi accesso se non con il furto. Chi comunque le aveva le poteva mangiare crude, sgranocchiate da sole (come si fa ancora oggi in Marocco o in Turchia) o con il pane, anche al bar, giocando a carte. Venivano anche regalate ai bambini che ne erano ghiotti. Potevano essere arrostite nella cenere calda del focolare o tostate con l’apposito tostino usato per le castagne o il caffè. Venivano anche consumate bollite in acqua a cui potevano essere aggiunti sale o zucchero e aromi quali l’anice, i chiodi di garofano, il timo, la buccia d’arancia ed anche foglie di cavolo. Si bollivano con la buccia, che veniva poi facilmente tolta al momento di mangiarle.
Un’utilizzazione delle ghiande propria a Spagna e Portogallo (e all’Algeria) è invece l’estrazione dell’olio per uso alimentare umano; veniva fatta per macinazione ed affioramento e se ne ricavava un 5% del peso delle ghiande. La quantità di quest’olio prodotto in Spagna a metà degli anni ’60 era notevole, poi è andato a scomparire rapidamente.