Gli Indiani d'America

Donna indiana che sbuccia le ghiande Gli ultimi popoli che hanno avuto una dieta in cui le ghiande occupavano uno spazio fondamentale, se non addirittura preponderante, sono stati i diversi gruppi degli Indiani d’America, soprattutto in California.  E ciò fino a tempi relativamente recenti, tanto da lasciare un gran numero di testimonianze. 

Le diverse tribù erano sparpagliate su territori molto vasti e molto diversi ecologicamente; quindi ognuno di loro aveva le proprie ghiande, le proprie preferenze e le proprie preparazioni.

Gli indiani delle valli del Sacramento e del San Joaquin, in California, potevano contare su diverse specie di querce e le ghiande che queste fornivano rappresentavano più del 50% delle loro risorse alimentari. L’abbondanza di tale risorsa alimentare permetteva a questi gruppi di avere densità abitative di 40 abitanti per 100 chilometri quadri.Nonostante le alte densità abitative, non vi era penuria di ghiande grazie allo straordinario numero di piante ed alle loro capacità produttive. E probabilmente anche al fatto che vi era un adeguato sistema di conservazione che permetteva di ovviare alle differenze di produttività fra un anno e l’altro, a cui le querce sono notoriamente sottoposte.

Si trattava quindi di un cibo sempre abbondante. Una famiglia degli Yokut consumava fra i 500 ed i 1.000 kg di ghiande all’anno, quindi oltre i 150 grammi di ghiande al giorno e a persona che equivalgono a circa 500 calorie giornaliere, potendo arrivare a superare le 1.000 calorie giornaliere a testa. 

Le querce utilizzate in California erano soprattutto le Q. alba, agrifolia, chrisolepis e undulata.  Nei loro racconti i primi visitatori europei si meravigliarono di quei boschi di quercia mantenuti come dei frutteti.

Nonostante i radicali cambiamenti nella vita degli Indiani d’America, le ghiande rappresentano ancora un elemento importante della loro cultura. Per quanto non siano consumate frequentemente, vi sono alcuni membri di quelle comunità che continuano a raccoglierle ed utilizzarle, in un misto di orgoglio culturale, attaccamento alle tradizioni familiari e rievocazione storica a beneficio dei turisti. La tecnica di trasformazione resta la stessa che si usava anticamente anche se degli elementi moderni vi penetrano: l’acqua corrente in casa, il forno ed il mulino elettrico, i sacchi di materiale sintetico per conservarle.

La raccolta era un compito femminile; si raccoglievano sia le ghiande grandi sia quelle piccole, in quanto queste ultime seccavano più rapidamente. I frutti venivano seccati a terra su delle stuoie. Le ghiande si conservavano in granai su palafitte o su rocce. I granai, sospesi da terra, venivano costruiti con rami lascamente intrecciati in modo che ci fosse circolazione d’aria, poi foderati di aghi di pino perché le ghiande non fuoriuscissero.

Il tempo di conservazione poteva arrivare ai dodici anni nel caso delle ghiande della quercia nera, particolarmente ricca in tannini. Questo eccezionale tempo di conservazione permetteva di creare scorte sufficienti a fronteggiare anni di cattiva raccolta. Ma i granai diventarono anche l’obiettivo preferito dei razziatori americani che strapparono la terra agli Indiani: bruciarli voleva dire condannare i villaggi alla morte per fame. Certi vecchissimi indiani raccontarono all’inizio del 1900 come a metà del secolo precedente gli Indiani e le loro ghiande sfamarono i primi coloni anglosassoni quando giunsero con i loro carri in California, sfiniti ed affamati. Gli stessi coloni che successivamente tolsero loro le terre e la possibilità di avere accesso a quelle ghiande che erano state usate per salvarli.

Al bisogno le ghiande venivano recuperate dal granaio, ormai ben secche e molto dure e venivano sgusciate, una ad una. Si doveva quindi allontanare la fastidiosa pellolina che ricopre il seme. Ciò poteva esser fatto strofinando fra le mani una piccola quantità di ghiande alla volta; oppure facendole rotolare in un vasto cesto di vimini, lanciandole in aria e riprendendole al volo. I frammenti di sottilissima pelle veniva allontanati dal vento o soffiandoci sopra. È  lo stesso processo di vagliatura che veniva compiuto tradizionalmente con i cereali, anche nel Vecchio Mondo.

Si passa quindi alla macinazione effettuata con dei mortai in legno o, più frequentemente, in pietra. Alla fine della lavorazione era necessaria una vagliatura con il recupero dei frammenti ancora troppo grossi e la loro successiva rimacinatura. 

La vagliatura era effettuata mettendo una piccola quantità di farina in un cesto largo e piatto a trama molto fitta; con leggeri colpetti sul fondo del cestino si facevano emergere dalla massa le particelle più grossolane che finivano per galleggiare sulla farina fine e che venivano allontanate inclinando il cesto e facendole cadere dal bordo.

Arriviamo dunque alla fase più delicata: la lisciviazione della farina per togliere i tannini. Veniva preparato un bacino circolare, dal fondo minuziosamente livellato, con un bordo rialzato tutt’intorno, del diametro di qualche decina di centimetri. Tale struttura era in sabbia omogenea, deveva essere abbastanza profonda e non riposare su uno strato sottostante di argilla impermeabile. Nel bacino, minuziosamente preparato, veniva gettata la farina sciolta in abbondante acqua. L’acqua drenava attraverso la sabbia, le particelle più grosse di farina si depositavano a contatto con la sabbia e sopra quelle più fini. Si procedeva quindi con ulteriori lavaggi versando più e più secchi di acqua sulla farina. Lo strato della farina non doveva essere superiore ad un centimetro; le dimensioni del bacino erano date dalla quantità di farina da lisciviare. Si continuava a gettare acqua stimando che l’equivalente di un secchio era necessario per togliere i tannini ad una tazza di farina. Via via che si versava l’acqua, la farina diventava più chiara. L’unico sistema per sapere quando interrompere il processo consisteva nell’assaggiare una punta di farina. Quando non era più amara, si interrompeva la lisciviazione. Si lasciava sgrondare bene la farina che si compattava in uno strato ben coerente che poteva essere facilmente rimosso. È  della massima importanza che tutta la farina fosse ben dilavata per evitare che anche piccole quantità, che avessero conservato l’amarezza, finissero per rovinare tutta la preparazione culinaria che si voleva fare: l’operazione doveva essere fatta con molta cura ed in modo molto omogeneo.

Dalla descrizione dell’antropologa si apprezza la lunghezza, la complessità e la delicatezza di tutto il processo che portava dalla raccolta all’ottenimento della materia pronta ad essere cucinata. Le quantità che potevano essere preparate quotidianamente da una donna, sia pure con l’aiuto delle figlie o delle nipotine, non erano certo importanti. Si doveva trattare quindi di operazioni che venivano eseguite tutti i giorni ed in tutte le famiglie, occupando molto tempo.

A questo punto poteva cominciare la cottura: il metodo tradizionale usato dagli indiani, ed ancora oggi riprodotto, è stupefacente. Non si usava ceramica da fuoco, ma cesti di fibre vegetali, fittamente intessute. Il cesto veniva adagiato in una depressione del terreno in modo che si mantenesse in piedi. Vi si gettava la quantità voluta di farina di ghiande e vi si aggiungeva acqua in modo che si ammassasse.

Nel frattempo era stato acceso un fuoco sul quale venivano poste a scaldare delle pietre arrotondate delle dimensioni di un pugno. Le pietre calde venivano immerse in rapida successione in due recipienti di acqua. Così facendo si perdeva un po’ di temperatura, ma tale doppio lavaggio permetteva di staccare i carboncini e la cenere che avevano aderito alla superficie della pietra durante il riscaldamento. La manipolazione delle pietre roventi era spesso compito maschile.

Le pietre ormai pulite venivano messe nel cesto di cottura. Si poteva usare una sorta di anello di legno con un manico per adagiarle delicatamente oppure si deponevano direttamente con le pinze con cui si erano tolte dal fuoco e lavate. Nonostante il lavaggio, le pietre scaldate nel fuoco apportavano al cibo un certo sapore di affumicato che era caratteristico ed apprezzato (e che manca nelle elaborazioni moderne cucinate sui fornelli ed in recipienti metallici). La poltiglia presente nel cesto cominciava a bollire. Si usavano di norma due pietre alla volta.  Una volta che la pietra si era raffreddata veniva tolta, rapidamente spazzolata con le dita, facendo ricadere nel cesto di cottura i residui di farina aderiti, e messa da parte. Una nuova pietra calda veniva immessa. La cottura aveva generalmente bisogno di quattro o sei pietre e si usava parlare di “zuppa di quattro pietre” o di “zuppa di sei pietre” in quanto il risultato della preparazione era diversa, più o meno cotta.

Tale zuppa era consumata così, senza altri ingredienti, salvo, presso alcuni, delle erbe aromatiche che erano macinate insieme alle ghiande. In nessun caso sembra che le ghiande, o la loro farina, venissero mescolate con altri cibi o che entrassero in altre preparazioni della pur varia cucina indiana.

I diversi tipi di farina che si ottenevano dalla macinatura, come detto prima, più grossolana o più fine, avevano utilizzazioni diverse.  

Dai racconti di vecchi viaggiatori pare di capire che quelle donne indiane (che preparavano quantità molto più consistenti di farina di quanto si faccia oggi a scopo rievocativo) riuscivano ad ottenere durante la lisciviazione tre tipi diversi di farina e non solo due come succede oggi durante le rievocazioni. Quindi il pacchetto di farina che si formava nella conca di sabbia, alla fine della lisciviazione poteva essere diviso in tre categorie, delle quali quella centrale era considerata la più pregiata. Da questa frazione di farina si otteneva, con una lunga cottura, una pasta ancora più densa della Nupa (polenta); dopo la cottura la si suddivideva in piccole porzioni che erano collocate in piccoli cestini, a loro volta immersi nel fiume, in una zona di acqua tranquilla. L’acqua fredda provocava il rapprendimento della massa, il suo distacco dal cestino e la formazione di specie di pagnotte che restavano a galleggiare nell’acqua fino al loro raffreddamento completo. Una voltea asciugate, queste pagnotte si potevano conservare anche per molte settimane. 

È interessante notare come questi processi culinari siano complessi e molto diversificati. Non si tratta quindi di una cucina di sopravvivenza, atta solo a togliere la fame, ma vi si intravede una ricerca di sapori e di piatti differenti; perfino una certa raffinatezza. Altre preparazioni consistevano nel cuocere su pietre calde delle polpette di farina di ghiande o di scioglierla in acqua formando una farinata acquosa chiamata, in certe tribù, Wiiwish o Shawii.

Del tutto particolare il metodo usato dai Chinook. Scavavano una fossa dove depositavano circa 25 kg di ghiande coprendole con uno strato d’erba e successivamente circa 20 centimetri di terra. Ciò veniva fatto non lontano dall’abitazione. Tutti i membri della famiglia avrebbero poi orinato in quel luogo nei successivi quattro o cinque mesi. Alla fine del processo quelle ghiande erano considerate delle grandi prelibatezze. I coloni bianchi le conoscevano come “olive Chinook”.

Le ghiande entravano anche nella composizione del famosissimo pemmican: quella sorta di insaccato ipernutritivo e calorico, tipico degli Indiani d’America e reso famoso dagli esploratori polari che ne fecero il loro cibo preferito.  È una miscela di carne magra di animali cacciati o allevati, seccata e ridotta in polvere a cui si aggiunge frutta secca sminuzzata (fra cui le ghiande); il tutto è impastato con grasso animale. Si confezionano quindi delle palle che si avvolgono nei materiali disponibili; foglie, carta, pelli. Il pemmican è quindi di facile trasporto e si può conservare per molti anni, senza danneggiarsi.

Negli Stati Uniti queste antiche tradizioni si sono ultimamente rinverdite: le ghiande hanno assunto un valore di cibo dietetico, salutista, sano. Gli Indiani naturalmente sono le persone maggiormente associate al consumo di ghiande e quindi anche alcuni di loro si sono attivati per diffondere ricette di questo tipo. Vi sono anche ricette che dovrebbero venire dalla loro tradizione, come la seguente, proveniente dalle tribù della California settentrionale ed un po’ rivista per adeguarla ai gusti moderni.

Mescolare in una terrina due terzi di tazza di farina di ghiande, un terzo di farina di grano, un cucchiaino di lievito per dolci, sale. Aggiungere e mescolare un uovo sbattuto, tre quarti di tazza di latte, un cucchiaio di miele e tre cucchiai di burro fuso. Versare a cucchiaiate la pastella che ne deriva su una piastra calda e unta. Cuocere, girando quando necessario.  

Per gli Indiani le ghiande rappresentano un cibo culturalmente molto importante anche ai giorni nostri. Il consumarle è in qualche modo ritornare ad antiche epoche, alle loro culture ancestrali, ai tempi della libertà prima dell’arrivo dell’uomo bianco, delle sue armi, delle stragi. Le ghiande sono quindi diventate un cibo simbolico con una fortissima carica identitaria.

Purtroppo la raccolta si è fatta oggi più difficile poiché molti boschi sono stati distrutti dal cemento e molti altri sono diventati privati ed inaccessibili agli indiani. Oltre alle dimostrazioni fedeli alla tradizione di cui abbiamo parlato finora si stanno diffondendo sistemi del tutto moderni per trattare le ghiande. Il trasporto viene ormai fatto in secchi e cartoni ed in auto. Le ghiande vengono seccate in forno o con l’aiuto di stufette o ventilatori. La lisciviazione viene spesso fatta nel lavandino lasciando gocciolare l’acqua della cannella per tutta la notte in un sacchetto di tela contenete la farina. Si usa anche la congelazione e con la farina si prepara il pane moderno, in forno se non addirittura nel microonde. Ciò stride molto con le antiche abitudini delle vecchie famiglie indiane, ma testimonia la vitalità della cultura che sta intorno alla ghianda.  

 

Copyright © Balanofagia.org

Questo sito fa uso di cookie tecnici. Puoi conoscere i dettagli consultando la nostra cookie policy qui. Proseguendo nella navigazione si accetta l’uso dei cookie; in caso contrario è possibile abbandonare il sito.